Giovanni Battista Maria Falcone

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Palermo Madrid

Giovanni Battista Maria Falcone, Palermo Madrid

 

con testi di Vincenzo Consolo e Mario Bellone.

 

Eugenio Maria Falcone Editore, Palermo 2001

 

ISBN 88-88335-00-5

Ya la esperanza es perdida
Y un sol bien me consuela
Que el tempo que pasa y buela
Lleverà presto la vida

 

Questa antica strofetta sconsolatamente canta la pastorella Teolinda, afflitta da pene d'amore, ne La Galatea di Cervantes, e questi versi, adattandoli al proprio caso, cosi come fa la pastorella, fa incidere sull'arco dell'ingresso della sua villa a Bagheria don Giuseppe Lanza Branciforte, principe di Butera, conte di Mazzarino etc. etc. A capo di una congiura contro Filippo IV, contro il viceré don Giovanni d'Austria, nel sogno di divenire re di una Sicilia indipendente, tradito e traditore la sua delazione, insieme a quelle del poeta Simone Rao, costò la vita a sei congiurati - il principe si ritirò in quel sobborgo di Palermo, tra la fenicia Soluto e la greca Imera, si chiuse dentro quella sua dimora che era fortezza, castello, tomba non di libri e di salme regali come l'Escorial, ma di orgoglio umiliato e di rimorso. Congiuravano contro i re di Spagna i nobili di Sicilia, ma frequentavano i poeti spagnoli. Poeti che a loro volta frequentavano, e non solo letterariamente, la Sicilia. 

 

 Come Quevedo che, consigliere del viceré di Sicilia conte d'Ossuna, aveva soggiornato a Palermo. E come Cervantes. Il soldato di Lepanto s'era imbarcato a Messina con l'Invincibile Armada, nella città dello Stretto aveva curato le sue ferite, aveva soggiornato a Palermo, a Trapani; nei bagni di Algeri diveniva compagno di pena dell'avventuroso poeta siciliano Antonio Veneziano. Il quale, riscattato prima di Don Miguel, in patria poteva dare notizie dei prigionieri cristiani, notizie di Cervantes, sull'arcivescovo di Palermo fra Diego de Haedo, impegnato a scrivere la sua Topographia e Histona General De Argel. I due poeti si scambiavano poi lettere e versi, Cervantes inviava al poeta di Monreale le Ottave per Antonio Veneziano dopo la lettura de La Clelia. Un altro grande spagnolo si imbatte in personaggi, in eventi siciliani: Lope de Vega. Scrive la Commedia famosa del santo Rosambuco de la ciudad de Palermo. Il santo negro, 'mas prodigioso", era il fraticello laico, figlio di uno schiavo moro, Benedetto Manasseri. Era stato "inventato" santo dai francescani a favore dei mori battezzati, in opposi- zione al potere dei "bianchi" inquisitori domenicani e all'orgoglio, al ricatto dei cristiani "vecchi", sui quali avrebbe ironizzato Cervantes nel Retablo de las maravillas e nel Quijote. San Benito diverrà popolare tra i mori e i poveri delle Americhe, rimbalzerà, per le prodigiose vie della letteratura, da Lope de Vega a Borges: darà nome a quel quartiere Palermo o San Benito de Palermo di Buenos Aires, la Palermo di "coltelli e di chitarre", il quartiere di Evaristo Parliamo della Sicilia come una delle più ispaniche regioni italiane, e non, o solamente, perché vicereame del grande Regno, ma per aver subito la Sicilia, come la Spagna, il vulnus immedicabile, la frattura insanabile, l'essere essa scivolata nell'età dei conflitti, aver subito la cacciata degli Ebrei, l'assoggettamento dei Mori, aver sofferto l'Inquisizione, l'essere piombata in quella paralisi, culturale sociale storica, che è durata, non quei tre secoli e mezzo che Amèrico Castro attribuisce alla Spagna, ma molto più tempo, che dura fino ad 1880 "Di tutte le dominazioni straniere che ci sono toccate, quella che, in epoca moderna, ha permeato più di tutte la mentalità siciliana, è stata la spagnola: imposta, certo, ma ci andava talmente bene da un punto di vista comportamentale ed estetico! Con il loro amore del fasto, della ricchezza e della festa, il loro gusto per la dissipazione è la prodigalità ostentata, la loro tendenza alla grandiosità e alla pompa, gli spagnoli ci misero a nostro agio: eravamo più fastosi ancora di loro. Il termine 'spagnolesco' d'altronde è più adatto ai siciliani che non agli spagnoli" scrive Leonardo Sciascia. Ma non solo comportamentale ed estetico è l'ispanismo siciliano, non è solo esteriorità, ostentazione e barocchismo, è anche, è forse soprattutto certa cupa, irrimediabile malinconia, certa amara, cristallizzata tristezza che può condurre alla perdita di sé, allo smarrimento, al distacco dalla realtà, all'allucinazione. Quanto frequenti sono in Sicilia, nella storia, nella letteratura, i don Chisciotte di Cervantes o i Sigismondo di Calderon, le gongoriane solitudini e le notti oscure di Juan de la Cruz; quando frequenti i goyeschi sonni della ragione, la pietrificazione dei mostri, come quelli della villa del principe di Palagonia, ancora di Bagheria; quanto ispanico è il pirandelliano dramma dell'essere e dell'apparire, quanto cervantiano il gioco fra la realtà e l'illusione, fra autore e personaggi, che parallelamente si svolge in Pirandello (Tragedia di un personaggio, che diviene poi Sei personaggi in cerca d'autore) e in Uamuno (nel romanzo Niebla). E si potrebbe continuare in questo parallelismo fra autori spagnoli e autori siciliani, fra romanzi delle due letterature, ambientati in città parallele.
 Così ha fatto Giovanni Battista Maria Falcone mettendo a confronto fotograficamente, rivelando e rilevando la loro specularità, Tiempo de silenzio di Luis Martin-Santos e il mio Lo Spasimo di Palermo, ambientati rispettivamente a Madrid una Madrid del tempo atroce del franchismo - e a Palermo - una Palermo del tempo atroce del dominio della mafia e delle stragi di uomini giusti e innocenti. Si aprirebbe qui il capitolo quanto mai difficile del rapporto tra fotografia e letteratura, fotografia e scrittura, fotografia e realtà. Capitolo che è stato trattato, nel modo suo chiaro, da Roland Barthes, e non solo ne La chambre claire, ma in altri libri, e specificatamente in Le grain de la voix. E a Barthes quindi rimandiamo, a Barthes e a ogni altro teorico o artista che sulla fotografia ha riflettuto, ha scritto, da Baudelaire a Benjamin, a Sontag, a Tournier. Ma possiamo dire qui delle fotografie, di Madrid e di Palermo, di Giovanni Falcone, che esse non sono reportage. Che esse si discostano dalla tradizione fotografica siciliana, e specificatamente palermitana, di fotografi che vanno da Sellerio fino a Scianna, in cui è preminente e significativo l’aspetto umano, sociale di una città e di una regione dalla realtà fortemente connotata, "eclatante" e spesso ridondante. Così è, in Falcone, per Madrid, una città dalla realtà sociale fortemente connotata. Non sono insomma, le fotografie di Falcone, connotative ma denotative. Sono fotografie di strade, di piazze, di case, palazzi, chiese, monumenti, di architetture storiche e anonime.    Fotografie di volumi, di luci, di ombre, di chiari e di scuri. Teatri infine, quelli di Madrid e di Palermo, in cui metaforicamente si possono vedere gli orrori e le demenze di un tempo fascistico come quello dello straordinario, impareggiabile Tiempo de silencio e la cieca violenza, la bestiale prepotenza di un eterno tempo mafioso come quello de Lo Spasimo di Palermo. Il vuoto, l'assenza in questi spazi, nelle arene e nei terreni vaghi di queste fotografie di Falcone è quanto di più inquietante, di più drammatico si può leggere in città come Madrid e Palermo.
O, metaforicamente, nel più vasto, attuale Gran teatro del mundo.

Vincenzo Consolo, da Palermo Madrid, Milano 2001

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